La Storia.

La coltivazione del Pomodoro è relativamente recente. Originario del centro-America, diffuso presso i Popoli Maya, Incas e Aztechi che lo chiamavano “xitomatl”, pomo di piccole dimensioni e di colore giallo, arriva in Europa fra il 1519 ed il 1521 ad opera Hernán Cortés che ebbe cura di rastrellare e portare in Spagna le ricchezze e i tesori del Nuovo Mondo.
L’Italia, e in particolare il Regno di Napoli, allora dominio della monarchia spagnola (già con Alfonso d’Aragona e poi con Carlo V d’Asburgo), fu tra le prime nazioni europee a conoscere il pomodoro.
Tuttavia, passeranno alcuni secoli prima che il “nuovo frutto” cominci ad essere apprezzato come genere alimentare e solo nel XIX secolo farà il suo ingresso nei ricettari conquistando, specialmente al Sud, il podio più alto tra i prodotti base della cucina moderna, indispensabile ingrediente dei cuochi più raffinati.

Secondo quanto riportato da recenti studi, il “pomodoro” viene menzionato per la prima volta in letteratura nel 1694 da Antonio Latini. Nel suo trattato di gastronomia, Scalco alla moderna, non a caso edito a Napoli, l’autore lo indica quale ingrediente usato per una ricetta di stufato di verdure.

Nel suo Panonto toscano, pubblicato nel 1705, Francesco Gaudenzio, cuoco dei Gesuiti, scrive del misto di verdure in tegame e si sofferma sul colore rosso del piatto dovuto all’inserimento dei pomodori prima pelati e tagliuzzati e poi soffritti nell’olio.

Vincenzo Corrado, esperto di botanica e di gastronomia, nel suo Cuoco galante pubblicato (sempre) a Napoli nel 1773, descrive i pomodori come “frutti” color zafferano.
Nel 1835, Alexandre Dumas, di rientro in Francia da un suo soggiorno a Napoli, racconta di aver mangiato una pizza condita con il pomodoro. Il pomodoro incontra finalmente la pizza.

Ippolito Cavalcanti, nel suo volume Cucina teorico pratica, dato alle stampe nel 1839, scrive, usando dizioni in dialetto napoletano, de “i vermicielli co’ le pommodore”. Il pomodoro fa la sua prima uscita con la pasta.

Niccolò Paganini nel 1840 pubblica la sua famosa ricetta dei ravioli alla genovese e finalmente si parla di “salsa di pomodoro”.

Ed è a partire da questo periodo che, molto probabilmente, nelle terre del Vesuvio-Montesomma si diffonde la coltivazione del pomodoro e con esso tutto un sapere contadino sulle forme di allevamento, ma anche dell’uso e della conservazione del prodotto.
Già a metà ‘800, studi condotti da Achille Bruni, titolare della Cattedra di Agricoltura della Reale Scuola Superiore d’Agricoltura in Portici, documentano la produzione nel vesuviano di pomodorini che “si mantengono ottimi fino in primavera, purché legati in serti e sospesi alle soffitte”. (Bruni, “Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli”, 1858)
Infatti, la particolarità dell’ecotipo coltivato sul Vesuvio, grazie alla maturazione su un terreno drenate, ricco di mineralità e con poca acqua, e proprio per la sua buccia coriacea, riesce a conservarsi al naturale fino alla primavera successiva alla raccolta.

Come sempre accadeva per gli ortaggi d’uso familiare, i contadini sceglievano i frutti che reputavano più adatti e ne prelevavano il seme, che andava a costituire il materiale di riproduzione per l’anno successivo. Così nella prima metà del ‘900 erano già conosciuti e diffusi i pomodorini “Fiaschella”, “Lampadina”, “Principe Borghese”, “Re Umberto” e “Patanara” da cui sono derivati gli attuali ecotipi.

Fino a tutti gli anni ’70 del secolo scorso, nei comuni che girano attorno al Vesuvio, non c’era borgo contadino che, a partire dal mese di luglio, non appendesse sotto il porticato i piennoli di pomodori realizzati secondo un metodo semplice di intrecciare i frutti raccolti a grappoli in un filo quasi come infilare le perle di una collana.
Erano quelli gli anni in cui il frigorifero non era ancora presente in tutte le case e, laddove c’era, veniva usato solo d’estate per rinfrescare alimenti di uso giornaliero e bevande. Qui gli antichi saperi dominavano ancora la cultura e non solo popolare. E anche la conservazione degli alimenti rispettava, pertanto, i metodi tradizionali. Il pomodoro del Vesuvio, caratterizzato dal pizzo, raccolto anzitempo rispetto alla sua maturazione, asciutto e dalla buccia corazzata, veniva appeso in un luogo ambrato e ventilato per essere consumato poi nei mesi invernali.

Le famiglie vesuviane, infine, sono solite preparare la tradizionale e secolare conserva tipica detta “a pacchetelle”, caratterizzata da un processo di lavorazione manuale, fortemente legato al territorio vesuviano, che si è tramandato nel tempo e che ancora oggi si svolge utilizzando il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio non pelato, tagliato longitudinalmente in metà o in spicchi (o “filetti”) e conservato in vaso di vetro.

Tra gli anni ’80 e ’90, caratterizzati da un forte abbandono delle campagne, tra processi di globalizzazione e di omologazione, molte colture dell’agro vesuviano si sono più che dimezzate quando non completamente scomparse.
Tra queste anche il pomodorino ha subito una sua battuta d’arresto per poi essere, fortunatamente, ripreso a partire dai primi anni del nuovo millennio. Ed è grazie al Consorzio che si è riusciti a salvare un ecotipo che rivendica una propria origine e identità.

L’Area di Produzione .

La zona di produzione della nostra D.O.P è rappresentata dai 17 Comuni che costituiscono l’area del Sistema Territoriale Rurale 16 – Complesso Vesuvio-Monte Somma, ricoprendo l’intera superfice del Parco Nazionale del Vesuvio.In particolare, l’areale di riferimento comprende il territorio dei seguenti Comuni:

  • Boscoreale, 
  • Boscotrecase, 
  • Cercola, 
  • Ercolano, 
  • Massa Di Somma, 
  • Ottaviano, 
  • Pollena Trocchia, 
  • Portici, 
  • Sant’Anastasia, 
  • San Giorgio a Cremano, 
  • San Giuseppe Vesuviano, 
  • San Sebastiano al Vesuvio, 
  • Somma Vesuviana, 
  • Terzigno, Torre Annunziata, 
  • Torre del Greco, 
  • Trecase, 
  • Piazzola di Nola (frazione e demanio amministrato dal Comune di Nola, ma territorio geograficamente racchiuso tra le campagne di Somma Vesuviana e Ottaviano).
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